Teatro “civile” o teatro del “vivente”

IMG 3432ok3

Ho scoperto in questi ultimi dieci anni di lavoro che la cosa che mi interessa di più è l’osservazione, o meglio, trattandosi di testimonianze orali, l’ascolto del “reale”. Reale è l’esperienza concreta delle singole persone, la vita vissuta, che io amo chiamare il vivente. La testimonianza del vivente mi consegna un dato che non è già stato tradotto o trasferito sul piano teorico e che quindi non è stato ripulito da quei dettagli che rivelano la complessità delle vicende, la vulnerabilità e l’unicità degli esseri umani.  Quando il testimone riporta la sua esperienza del reale, nel suo racconto fluiscono e si intersecano in un unico processo cognitivo l’aspetto razionale (la cronaca), quello intellettuale (il giudizio) e quello emotivo (il dramma personale).

Il linguaggio della testimonianza consente allo spettatore di comprendere il reale con tutti i mezzi che ha a disposizione: mente, corpo, emozione. Si tratta di un analisi che si muove contemporanea su questi diversi piani, razionale, intellettuale ed emotivo.

La sola analisi intellettuale, tecnica o scientifica, purtroppo non tiene mai insieme i pezzi, ma li separa, privilegiando la mente, la nozione scorporata dal suo essere esperienza, corpo ed emozione.  Nel discorso intellettuale quasi sempre i dettagli dell’esperienza vivente scompaiono come scompare il soggetto che la esperisce. Certo, l’analisi scientifica di un fenomeno rimane indispensabile nel percorso di studio, mi fornisce strumenti di comprensione, mi aiuta a collegare cause e nessi e alla fine spesso diventa lo sfondo sul quale il presonaggio si colloca, è l’ambiente storico, politico, sociale nel quale l’individuo vivente fa la sua esperienza. Ma non è la mia analisi o quella degli specialisti a poter generare da sola la materia vivente che serve al teatro. Non amo le citazioni, non le so usare, ma ricordo un pensiero attribuito a Shakespeare che mi è rimasto impresso: la verità risiede nel paradosso.

Cosa fa il teatro del vivente, il teatro civile? Si infila nelle pieghe, nelle crepe del racconto, crea uno spazio negli interstizi e va a scovare il paradosso, le contraddizioni. Questo processo mi è stato molto chiaro durante lo studio per Nati in casa e ancor di più per Tanti saluti. In Tanti saluti io do voce alle infermiere e ai medici. E quelli che apprezzano di più lo spettacolo sono proprio medici e infermieri perchè conoscono meglio di me quello che racconto ma lo sentono raccontare da qualcuno che si permette di fare ciò che a loro nella vita non è concesso: tenere insieme i pezzi, parlare con la testa e con il cuore. Il proprio cuore.  

Ecco cosa mi piace del teatro civile, che ci fornisce un analisi del reale senza mai mettere il vivente sullo sfondo ma tenendolo in primo piano. Ne ho la conferma tutte le volte che i miei spettacoli vengono organizzati in seno a convegni, congressi o a giornate di studio: il teatro non viene a dire nulla che non si sappia già ma lo dice in un modo che attiva una comprensione dei fati più completa, più profonda, che non esclude le contraddizioni, gli interrogativi, i paradossi. 

Nella fase di ideazione e di ricerca spesso per me il valore della testimonianza viene addirittura prima del pensiero sul linguaggio teatrale.

Intendo dire che il contenuto di una testimonianza reale, che si fa drammaturgia, viene prima anche dell’urgenza estetica e formale del prodotto teatrale. L’abilità sta nel trovare ogni volta quel linguaggio estetico e compositivo che difende e valorizza il contenuto. Un linguaggio che si mette a servizio del contenuto e mai viceversa.

Questa pratica di scrittura per me distingue quello che possiamo chiamare teatro civile da quello che non lo è.  Civile è un teatro che si mette a disposizione di un contenuto. La difficoltà compositiva sta tutta lì: nell’urgenza di coniugare i contenuti del reale con poesia, pathos, comicità, divertimento, ritmo, musica, gesto, ecc. ecc.

Forse per questi motivi il teatro “civile” non è molto amato dai professionisti del teatro tanto quanto lo è dal pubblico “civile”. Eppure in Italia esiste una piccola comunità di artisti che resiste spontaneamente alla seduzione dell’autoreferenzialità e si arrende con gioia a un teatro che ama “osservare” più di quanto ami “farsi osservare”.

Giuliana Musso

Venezia, Maggio 2012